Cinema

E morì con un felafel in mano

E morì con un felafel in mano

Danny (Noah Taylor) è uno scrittore. Non ha talento, ne è consapevole, e invece di emulare i suoi autori di riferimento (Dostoevskij, Tolstoj, Blake, Sartre) provandosi con la grande letteratura, scrive racconti erotici sperando in una proficua pubblicazione su Penthouse. Ma la pubblicazione tarda ad arrivare e Danny continua a vivere con un gruppo di ragazzi che passano le loro giornate tra droghe e festini concessi loro dall’ indennità di disoccupazione. In quella casa succede di tutto, fino e d oltre i confini dell’immaginabile. Durante un sacrificio umano di un gruppo “femminista-antipatriarcalista”, con infiltrazioni neo-nazi, Danny decide di cambiare aria, costretto dai debiti con il proprietario e tormentato dall’impossibilità di superare una delusione d’amore. In cerca di una stabilità, umorale oltre che domiciliare, gira un po’ per tutta l’Australia tra vessazioni subite dalle istituzioni e conseguenti difficoltà nel ritagliarsi un posto nel mondo. “C’è chi vuole essere amato, o considerato. Io voglio solo essere” dice a Sam (Emily Hamilton). Icona del post-modernismo, Danny vive un tempo in cui tutto è già dato, e detto, dove non si può che ripercorrere le esperienze e i pensieri altrui con rimescolamenti ad hoc e nuove sintesi possibili (e impossibili) tra senso e vita. A chi lo accusa di rinchiudersi in queste convinzioni per paura di elaborare un pensiero proprio, risponde prendendo succhiando dalla sua sigaretta. Perfettamente tra decadenza e post-modernismo, con un bel tocco di ironia. Sul foglio della sua macchina da scrivere non va oltre le due righe che recitano “Black is the ultimate….. Black Eclipses Everything…”Che rimangono lì come muro invalicabile e come monito. Ma intanto ottiene la agognata pubblicazione con un racconto erotico dal sapore vagamente gogoliano. Capito il personaggio? Un film ben diretto dal regista Richard Lowenstein, buona la fotografia e godibilissima la sceneggiatura. Divertente, a tratti esilarante a tratti tragica, la storia riserva un finale forse un po’ prevedibile senza però cadere nel banale. Simbolica la miscellanea che compone la bella colonna sonora, che spazia da Moby al nostrano Nino Rota, da Nick Cave (ironica musa di un tentato suicidio) a Richard Wagner; e questo è un’altro segno di un lavoro che vuole muoversi nel solco del post-moderno.